venerdì 2 novembre 2007

Economia 2.0: ne' scambio, ne' dono ?

Interessanti riflessioni di Vladi Finotto (First Draft) sul primo esempio italiano (pare) di Osteria senza oste.

Innanzi tutto il fatto: a Santo Stefano di Valdobbiandene (Treviso), patria del cartizze e del prosecco, si trova un eremo collinare dal quale si possono ammirare vigneti e dolci vallate dal verde riposante. Ma soprattutto e' attrezzato di tutto punto per appetitosi spuntini da consumarsi in solitaria o meglio con parenti, ospiti e amici o in gruppo. Si tratta di salumi, formaggi e vini, di produzione locale e pure di ottima qualita'. L’offerta per ciò che si e' gustato e' lasciata all'onesta' degli avventori, esiste solo un prezzo "consigliato" ma nessun controllo, e il denaro viene depositato in una cassetta sul tavolo della cucina. L'oste (i proprietari, i fratelli De Stefani) non c'e': passa fuori orario a rassettare e rimpinguare le scorte alimentari. E a raccogliere le offerte, che sembrano piu' che adeguate: i De Stefani e i viandanti (per lo piu' turisti) sono tutti soddisfatti, e il passaparola accresce il successo dell'iniziativa.

Mentre sarebbe naturale ricondurre questo esempio all'economia del dono, Vladi sostiene che cosi' non e', perche' il valore che viene corrisposto all'oste e' anche maggiore del valore di break even (quello a cui si pareggiano i costi). E cosi' risulta anche per i RadioHeads, a cui sono stati pagati mediamente 5 dollari contro un break even a 2 dollari circa. Quindi si tratta ancora di economia di mercato, dice Vladi.

Un'obiezione da parte mia.

L' "economia del dono" e' basata sul valore d’uso degli oggetti e delle azioni, come si legge su Wikipedia, cioe' il valore dal solo punto di vista di chi li utilizzera'. Ora questo e' esattamente quello che succede in quell'osteria: il valore d'uso corrisposto per il prosciutto risulta certamente legato alla fame, ma anche alla possibilita' di gustare insieme il prosciutto e il paesaggio, e la comodita' dell'osteria, e i sapori di una volta e la genuita' dei prodotti, e probabilmente anche alla possibilita' di vivere un'emozione insolita (l'offerta libera). E la stessa cosa avviene probabilmente per la musica dei RadioHeads. Non un valore contrattato col venditore, dunque, ma un valore spontaneamente riconosciuto dal consumatore, secondo solo i suoi criteri. Dunque non e' economia di mercato e assomiglia piu' all'economia del dono.

Quello che effettivamente non costituisce differenza tra l'economia del dono e l'economia di mercato e' che il valore del bene in oggetto e' comprensivo delle percezioni ed emozioni del consumatore (valori aggiunti). Questo puo' trarre in inganno. Anche nell'economia del dono il ritorno economico puo' essere vantaggioso, se l'utilizzatore riconosce il valore aggiunto.

D'altra parte l'economia del dono, proprio perche' non tiene conto di chi cede, richiede che sia praticata solo tra "pari" (donatori e beneficiati hanno le stesse disponibilita'), e in generale in presenza di una certa abbondanza del bene, come infatti succedeva nelle popolazioni dove era in uso (vedi il caso del Potlatch tra i nativi americani qualche secolo fa). Anzi nell'esperienza del dono, anche nella nostra cultura, il bene donato potrebbe essere superfluo e in alcuni casi distrutto (o riciclato). Infatti il ritorno economico non avviene in coincidenza del dono, ma semmai in un'occasione diversa in cui il ruolo di donatore viene assunto dall'altra parte.

L'economia del dono (ma pare che non ci sia un modello unico) e' quindi un'economia di "mantenimento" e di equa distribuzione in una societa' "chiusa". Non e' basata sul "bisogno" e sulla necessita' di rivolgersi ad altri per approvvigionarsi secondo le proprie necessita'. E' basata piuttosto su una serie di compensazioni che permettono il mantenimento di un equilibrio economico e sociale. Attraverso una sequenza di eventi (rituali tra i nativi americani, e piu' informali nei paesi occidentali), in cui i membri di una comunita' cedono a turno agli altri (e chi piu' ha piu' cede), ciascuno trova il modo di superare momenti di difficolta' e nessuno interpreta la propria abbondanza in modo egositico.


L'oste di Valdobbiadene e i RadioHeads non si sono rivolti a "pari", bensi' a persone sconosciute e potenzialmente abituate ad una diversa scala di valori. Ne' d'altra parte si sono accontentati di un dono futuro in cambio: l'oste ha indicato il prezzo che si attendeva che venisse pagato, e in ogni caso un pagamento e' avvenuto quasi sempre nell'occasione della consumazione. Non si tratta certo di un caso di distribuzione all'interno di una comunita' chiusa.

Tra l'altro non sono da confondere nemmeno con quei casi di contenuti e servizi offerti sul web con l'invito non vincolante a "donare". In quei casi avviene uno scambio, spesso nell'inconsapevolezza di chi riceve: chi dona ottiene traffico e visibilita' e anche dati, che poi convertira' in moneta attraverso forme di pubblicita', vendita di servizi avanzati, o elaborando/rivendendo i dati raccolti. Li' il valore corrisposto non e' certo a discrezione di chi riceve.

Tutti questi esempi, l'oste di Valdobbiadene (tutto offline) e i Radioheads (tutto web2.0) e i web services e il software opensource, pur differenti tra loro, hanno in comune il fatto di non essere ne' un esempio di "economia di mercato" ne' di "economia del dono". Sono qualcosa su cui e' utile riflettere con grande attenzione, e senza negare sbrigativamente il carattere innovativo, forse rivoluzionario.

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