domenica 2 agosto 2015

Progetto piattaforme sociali dunque sono.

Come stanno cambiando il mondo, l'economia e la società, le piattaforme tecnologiche che abilitano le connessioni e le relazioni tra le persone? Liberano più risorse dei problemi che sollevano? Il benessere percepito ci sorprende o ci delude? La nostra capacità di utilizzo matura in tempi più lunghi del tasso di innovazione a cui ci sottopongono?


Fra noi e “le cose come sono” c’è sempre un filtro creativo. I nostri organi di senso non usano percepire niente e riportano solo ciò che produce senso. Ciò ci rende “a un tempo creatore e creature”. (G. Bateson)  

Accettare. Subire. Essere parte del cambiamento.

Riprendo questo passaggio dall'ottimo libro di Luca De Biase, "Homo Pluralis: Esseri umani nell'era tecnologica", uscito a febbraio 2015, in cui cita Daniel Kahneman che ha vinto il Nobel nel 2002 per i suoi studi sulla moderna razionalità umana
"Le persone inconsapevoli – e tutte lo sono per la maggior parte del tempo – rischiano di assorbire il modo di pensare più adatto alle piattaforme, invece di adattare le piattaforme al loro modo di pensare. E dunque la razionalità e la consapevolezza possono combattere ad armi pari solo con il sostegno di altre piattaforme pensate per questo scopo."  
Delegare. Prorogare. Derogare il cambiamento.

Temo che ancora più diffusi - in base alla mia esperienza - siano i casi in cui le piattaforme vengono adottate come fossero dotate di magici poteri taumaturgici, e producessero i loro benefici per effetto spontaneo e naturale. Nessun patricolare sforzo richiesto: solo attendere il prodigio dell'autopoiesi. Mi diceva il referente di un cliente che qualche anno fa mi aveva chiesto di lavorare sullo sviluppo di una comunità di interesse di cui era promotore e facilitatore: "Vorremmo che la piattaforma funzionasse come facebook: vediamo che la gente ci va spontaneamente."

In altri casi sempre più frequenti nell'ultimo periodo, le piattaforme vengono adottate, dalle aziende come dalle istituzioni territoriali, con l'obiettivo nemmeno tanto nascosto, di "comunicare" un orientamento all'innovazione, prima ancora di averlo effettivamente sviluppato nella propria organizzazione, o di saperlo intercettare nella propria comunità di riferimento. Nulla di male, ben inteso, nella costruzione fin dall'inizio di un clima di consenso per un progetto impegnativo e dall'esito incerto, che aiuti a facilitare il cambiamento stesso. Anche se non tutti procedono in questo modo, come per esempio in Deutsche Bank

Sentirsi attori di una storia, mentre viene raccontata, è indubbiamente un canone tipico dei nostri tempi, amplifica il coinvolgimento, esalta la passione, e in qualche modo permette di focalizzare sugli obiettivi. Vale quindi certamente anche per l'adozione di piattaforme sociali da parte di comunità, tanto più che queste sono naturali amplificatori delle storie degli stessi membri. Un avvertimento, però: l'impegno richiesto oggi per comunicare sui social media, conquistare l'attenzione e attivare la partecipazione, è notevole: questo rende alto il rischio che l'impegno si concentri e si esaurisca a questo livello.

Coinvolgere nel processo di cambiamento per aumentarne il successo. 

D'altra parte, quando ci si trova a gestire progetti di profonda innovazione, è sempre maggiore l'attenzione riposta nel coinvolgimento del maggior numero di stakeholder appartenenti all'ecosistema di riferimento nello specifico contesto. Non solo è appropriato dichiarare per tempo le proprie 'intenzioni ("get out of the building" si raccomanda agli startupper riluttanti a condividere la propria idea d'impresa), ma si invita alla discussione e alla coprogettazione delle soluzioni che potranno realizzarla, ad iniziare dalle prime fasi di sviluppo. 

Non si tratta solo di verificare ipotesi, validare l'apprendimento
e approfittare di preziosi orientamenti e contributi alla progettazione. Il design thinking, che si sofferma in particolare sull'empatia necessaria tra progettisti e utilizzatori, applicato allo sviluppo delle piattaforme potrebbe essere così declinato:
introducendo una nuova piattaforma, dai la possibilità ai futuri utilizzatori di contribuire al suo sviluppo, e otterrai, oltre che una maggiore adesione ad un progetto che sentiranno proprio, anche un'evoluzione del loro modo di pensare, e quindi una maggiore naturale attitudine al cambiamento che porta. 
Un'opportunità da non perdere assolutamente.

Focalizzare sul senso del cambiamento e non sulla sua necessità. 

Non possiamo però perdere di vista il centro del problema. Il cambiamento indotto dalle piattaforme tecnologiche, non può essere più visto come un obiettivo a sé stante: lo è stato per troppo tempo. Le resistenze e le complessità che comporta, non sono il solo male da estirpare, come quando si vuole curare solo i sintomi e non la causa della malattia. Non bastano buone metodiche e tecniche per attivare le comunità, che facciano leva su un approccio endogeno (inside out), invece che esogeno (outside in), o su una felice combinazione dei due. La questione non è se si debba piegare la tecnologia all'utilizzatore, o viceversa, o giocare una partita senza vincitori e vinti. La lunghezza e l'esito incerto potrebbero affascinarci troppo, facendoci perdere di vista il senso stesso di questo gioco: ricondurre l'obiettivo del cambiamento al miglioramento del benessere delle persone, alla soluzione di concreti problemi sociali ed ambientali, all'aumento della qualità dell'ecosistema.

Le piattaforme sociali e tecnologiche, e il loro enorme potenziale in termini di capacità di connessione, di sviluppo di processi cognitivi, sono solo strumenti che ci aiutano ad essere e a pensare. Sono però ormai strumenti così sofisticati, che non evolviamo più grazie ad essi, o nonostante, ma insieme ad essi. Progetto e costruisco piattaforme sociali dunque sono, si potrebbe dire. La sfida quindi è migliorare il proprio modo di essere e di pensare, mantenendo saldo il senso ultimo di tale miglioramento, ed ottenendolo attraverso la costruzione partecipata degli strumenti che ci permetteranno di essere e di pensare. Aspettare il momento in cui li considereremo pronti per l'uso, per porci solo allora la domanda se siamo più felici dominandoli o sottomettendoci passivamente, potrebbe essere troppo tardi. Anzi, un'occasione persa.

[Pubblicato anche sul mio Linkedin Blog, il 3/8/15, e su Medium.com, il 5/8/15]

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